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LETTERA APERTA ALLE COLLEGHE ED AI COLLEGHI DIRIGENTI PENITENZIARI | 11/08/2011 |
14 agosto 2011 – SATYAGRAHA PER LE CARCERI E LA GIUSTIZIA |
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Ho aderito anch’io, superando le riserve più diverse, scrollandomi la titubanza di chi teme l’inganno nascosto dietro il gesto che pare nobile, all’appello lanciato da quella ierofania politica rappresentata da Pannella, con il suo profilo appuntito man mano che si leggono sui muscoli facciali gli effetti di uno sciopero della fame e della sete con il quale gareggia da tanto tempo. Ho aderito come cittadino all’iniziativa del 14 agosto, al SATYAGRAHA per le Carceri e la Giustizia, come chiunque altro non si voglia piegare al sopruso del più forte o astuto che irrompe nella propria vita non rispettando le regole convenute, le regole che stabiliscono i limiti suoi e miei, i suoi diritti ed i miei doveri e viceversa. Ho aderito anche come singolare sindacalista, il quale insieme ad altre e altri come lui, non ha abbandonato il quotidiano lavoro dentro le carceri e che tenta ostinatamente di tutelare i propri colleghi, all'interno di un sindacato privato di diritti ma che continua, ciononostante, ad esistere, a crescere, a combattere; un sindacato di direttori penitenziari che credono nelle cose che fanno o provano a fare: cultura della legalità, sicurezza trattamentale, sicurezza viva e duratura, nonostante tutto, anzi nonostante niente, perché niente ci stanno riservando in carceri private oramai di tutto, private di risorse umane, di quanto occorra per la loro manutenzione ordinaria che si trasforma giorno dopo giorno in un bisogno di risorse straordinarie e pertanto impossibili da ricevere, mentre blaterano di realizzare nuove carceri... Carceri virtuali, “The second jail”, parafrasando “The second life” di internet: senza direttori penitenziari e degli uffici dell'esecuzione penale esterna, senza agenti; carceri virtuali senza psicologi, senza educatori, senza assistenti sociali, senza fax e telefoni, senza idranti e sistemi di raffrescamento dell’aria, senza automezzi, senza medici ed infermieri, senza cortili passeggi e senza caserme, senza aria, senza colori, senza laboratori professionali e scuole…ma con i detenuti, di tutte le razze, di tutte le lingue e vernacoli del mondo, di tutte le povertà, di tutte le malattie, di tutte le droghe, di tutte le pazzie, di tutti gli autolesionismi, di tutto ciò che non si riesce a governare con il buon esempio, con il rispetto delle regole, con la scuola ed il lavoro, con la medicina che non si arricchisce, con le leggi fatte per gli uomini e non contro di essi. Care colleghe, cari colleghi, stanno portandoci, consapevolmente o meno, in un vicolo cieco, in un modello di carcere ben diverso da quello in cui, con tutti i distinguo del mondo, pure credevamo: il carcere della segregazione, dell’odio e del pianto, della vendetta di stato, delle trame, della commistione tra grande criminalità e terrorismo… Per questo ho aderito, a titolo personale perché mai mi permetterei di decidere per altre persone libere come Voi siete, all’appello di Rita BERNARDINI e di Marco PANNELLA e dei numerosi altri, tanto diversi da me sul piano delle idee politiche e sociali, ma convinti sostenitori della legalità. Non mi interessa sentire che il numero dei suicidi in carcere dei detenuti è in linea con quello di altri Paesi europei, sono questi dei meschini confronti al ribasso, sono la riprova che abbiamo smarrito il nostro modo di essere e fare carcere e sicurezza, che non ci ispiriamo più alle idee di Nicolò Amato e di Mario Gozzini, e non saranno modeste e velleitarie disposizioni di quanti non conoscono il carcere e la sua complessità a cambiare in meglio lo stato delle cose. Non si tratta, infatti, di “aprire le celle” o portare “ghiaccio” ai detenuti per risolvere una quotidianità dove il fuoco che si porta dentro si vorrebbe spegnere attraverso rimedi maccheronici, si tratta invece di affrontare con una strategia di sistema il problema dell’esecuzione penale in Italia e capire se la strada ottusamente sicuritaria che alcuni proclamano possa, invece, essere invertita proprio per fare una sicurezza duratura e capace di guardare lontano ed autoalimentarsi, evitando gli “scoppi” differiti, una volta che il detenuto abbia terminato la pena o sia stato, comunque, rimesso in libertà. In un sistema così come è stato delineato dal nostro legislatore costituzionale e dalle riforme penitenziarie susseguenti, i suicidi non possono trovare cittadinanza, se non in termini straordinari ed eccezionali, ancor di più quelli che hanno riguardato, in questi anni, gli operatori penitenziari, agenti e direttori compresi. La presenza costante di suicidi mostra che non siamo più il modello che conoscevamo, costretti ad allinearci con Paesi come la Francia ed altri. La nostra stessa situazione di dirigenti “sans papier”, senza contratto, è una ulteriore prova di come si punti su altri modelli dove si possa fare a meno dei direttori d’istituto e di uepe e occorre riconoscere come pochi politici abbiano intuito questo pericolo di riduzione, per implicazione, di legalità. Così come deve far pensare il fatto che non si assumano agenti di polizia penitenziaria in numero congruo, soprattutto se si intendono realizzare nuovi istituti penitenziari, idem per tutte le altre importanti figure professionali. Quanto sta accadendo a Londra in questi giorni deve farci riflettere: migliaia di giovani armati di mazze, pietre e speranze precarie esternano la loro rabbia e la risposta, come al solito, più facile, è quella “secca" sicuritaria, in risposta alle loro violenze. Le carceri potrebbero essere non così diverse; finora siamo riusciti, non rinunciando a spiegare le nostre difficoltà sia alle persone detenute che ai nostri operatori penitenziari, a far comprendere che il degrado, la povertà in cui versano le prigioni, la difficoltà ad offrire le minime risposte in termini di cure mediche, di assistenza essenziale, di supporto al disagio di chi è prigioniero, ancorché indagato o condannato, non dipende dalla nostra buona volontà; speriamo di riuscirci ancora almeno per salvarci moralmente, almeno per non rivedere scene che quanti hanno la mia età ancora ricordano: quando esplodere dei colpi verso un operatore penitenziario era il modo di manifestare rabbia e rancore verso uno Stato che si riteneva ingiusto. Anche per questo ho aderito all’iniziativa di Pannella & altri: non potevo fare altrimenti nei riguardi di quanti hanno mostrato di comprendere le nostre difficoltà e hanno spiegato ai detenuti, ai loro familiari, all’opinione pubblica, a coloro che osservano il mondo delle carceri, che non avevamo dirette responsabilità e che non volevamo essere ridotti al silenzio: prigionieri a nostra volta di governi che ci avevano abbandonati, impedendoci di fare, come invece vorremmo e con tutte le nostre forze, quanto avremmo voluto e quanto le norme internazionali e costituzionali ci impongono. Scusatemi per il tempo che Vi ho sottratto, ma volevo provare a spiegarmi per quanto non abbia il dono della sintesi, oltre che per offrire una risposta ai tanti colleghi che mi stanno chiedendo notizie in merito, mentre contestualmente aderiscono all'iniziativa di denuncia ed indignazione civile.
Trieste, 11 agosto 2011 Vostro |
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Il Segretario Nazionale | |
Dr. Enrico SBRIGLIA | |