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“Agenda per l’Emergenza penitenziaria” proposta dal Si.Di.Pe. 16/01/2013
Prot. n.81/T/2013.2 del 15 gennaio 2013
- agenda di cose da fare a cura dei prossimi nuovi Parlamento e Governo per realmente risolvere i gravi problemi penitenziari -
Questa proposta di “Agenda per l’Emergenza penitenziaria”, è un’agenda di cose che, a prescindere da un provvedimento di clemenza, possono essere realizzate a cura dei prossimi nuovi Parlamento e Governo per risolvere realmente i gravi problemi penitenziari ed a favore di un sistema penitenziario che sia coerente con i principi internazionali e costituzionali di rispetto della dignità della persona detenuta e della finalità rieducativa della pena.
Quelle che seguono si ritengono misure indispensabili per far fronte al miglioramento delle condizioni detentive ma anche per affrontare adeguatamente l’overcrowding penitenziario in modo sistemico poiché, nonostante la flessione delle presenze in carcere, per effetto di taluni importanti ma purtroppo non risolutivi interventi normativi (il D.L. 22.12.2011 n. 211, il c.d. decreto “svuota carceri” o “salva carceri”, convertito con L. 17.02.2012 n.9, che ha previsto l’aumento da 12 a 18 mesi dell’esecuzione delle pene detentive presso il domicilio1 e la modifica dell’art.558 c.p.p. nel senso che la custodia in carcere dell’arrestato può essere disposta in casi eccezionali e solo con decreto motivato del p.m.), è destinato ad aggravarsi e non è risolvibile attraverso la costruzione di nuove strutture penitenziarie che, peraltro, hanno tempi lunghi e impongono costi ingenti.

1. Depenalizzazione.

Occorre una depenalizzazione importante che realizzi un “diritto penale minimo”. Non si possono più assecondare gli umori di un’opinione pubblica spaventata perché disorientata.
Il carcere è troppo costoso, per la vita degli uomini e per le casse dello Stato e deve costituire l’extrema ratio, deve essere il rimedio riservato esclusivamente a delitti molto gravi e non il farmaco venefico spacciato come curativo di malattie sociali che imporrebbero ben altri interventi di carattere sociale e sistemico.
E’ necessario pensare, quindi, ad un carcere che non sia strumento improprio per risolvere i problemi sociali, dalla follia alla droga, dall'immigrazione al disagio sociale ed alla povertà.
Sono 60 i detenuti morti suicidi in carcere nel 2012 e 63 nel 2011, il 9,3 % ogni 10.000 detenuti mediamente presenti e il 4,3 % ogni 10.000; il costo della detenzione per le casse dello Stato è pari a 3.511 euro al mese per detenuto, circa 115 euro al giorno2.
E’ necessario costruire una cultura nuova della pena per la quale vi sia il ricorso al “carcere minimo”, cioè alla pena detentiva solo ove essa sia assolutamente necessaria per proteggere la comunità sociale in relazione al pericolo ed alla gravità effettivi della condotta criminale.
Il falso concetto di “certezza della pena”, che fa coincidere quest’ultima con il carcere, ha portato nel tempo ad un'ipertrofia del diritto penale ed a una congestione del sistema penitenziario, che si è così ripiegato esclusivamente sul carcere, unica pena ritenuta utile alla sicurezza, dimenticando che la sicurezza si costruisce anche in altro modo, perché nel carcere non si sta in eterno, non in tutti i casi comunque, perché dopo la detenzione c'é la libertà e laddove nulla sia migliorato dentro tutto sarà peggiore fuori e genererà nuova e maggiore insicurezza e sempre altro carcere.
Peraltro in tempi di spending review si deve pensare di limitarne l’applicazione ai casi di effettiva necessità piuttosto che ridurre le risorse umane e finanziarie che servirebbero per rendere il carcere conforme ai principi di diritto e capace di assicurare anche quel suo mandato rieducativo voluto dalla Costituzione e dalla normativa internazionale.

2. Potenziamento delle pene diverse dalla pena detentiva e introduzione di nuove pene non detentive.

L’idea che l’unica pena per un fatto costituente reato sia quella del carcere deve essere superata.
Il carcere deve essere riservato solo ai casi in cui il disvalore sociale delle azioni delittuose sia molto alto e comporti, nel contempo, esigenze di importante tutela della sicurezza sociale. Negli altri casi la detenzione appare misura eccessiva oltre che estremamente costosa per la collettività.
In molti casi, infatti, l’effetto deterrente potrebbe essere raggiunto attraverso il potenziamento di sanzioni diverse dal carcere o la creazione di nuove pene non detentive.
In tal senso potrebbero essere implementate e potenziate adeguatamente le sanzioni “sostitutive” delle pene detentive brevi, discrezionalmente concesse dal giudice della cognizione (semidetenzione, libertà controllata, pena pecuniaria). In paesi come Germania e Gran Bretagna, ad esempio, le sanzioni pecuniarie costituiscono la maggior parte delle pene applicate.
Potrebbe, inoltre, essere potenziata la competenza penale del giudice di pace e potrebbero essere rafforzate le pene che egli può applicare (pena pecuniaria, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità).
In alternativa al carcere è ipotizzabile, inoltre, l’applicazione di pene interdittive non come pene accessorie ma come pene principali, l’ampliamento della durata di alcune di quelle esistenti (come, ad esempio, l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione da una professione o da un’arte, la sospensione
dall’esercizio di una professione o di un’arte) o la creazione di nuove pene interdittive “principali”.

3. Limitazione della custodia cautelare in carcere.

Occorre che la custodia cautelare in carcere, il carcere preventivo, sia applicata solo quando effettivamente indispensabile e non per rispondere agli umori del momento.
Secondo i dati del Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2012 le persone detenute nelle carceri italiane erano 65.701 e di queste 25.696 imputati (39,11% del totale) e di questi ultimi: 12.484 (19% ) in attesa del giudizio di primo grado, 6.966 (19,60 %) appellanti, 4.650 (7,08%) ricorrenti, 1.596 (2,43%) con posizione giuridica mista.
Occorre, allora, pensare ad un carcere che non costituisca una modalità attraverso la quale accertare la verità che consegue, invece, ad una sentenza definitiva di condanna pronunciata a seguito di una durata ragionevole del processo; occorre realizzare un carcere nel quale la custodia preventiva, quella cioè cautelare che precede la sentenza, é adottata in casi veramente eccezionali ed indispensabili.
In concreto occorre, anzitutto, rimuovere dall’ordinamento tutte le ipotesi di custodia cautelare “obbligatoria”, cioè quelle ipotesi in cui l’imputazione per un determinato titolo di reato, in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari, impone l’applicazione automatica della cautela carceraria. Tanto in coerenza con le oramai molteplici pronunce della Corte Costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di molte ipotesi di questo tipo (sent. n. 265/210, sent. n. 164/2011, sent. n. 231/2011, sent. n. 331/2011, sent. n. 110/2012).
Riteniamo, inoltre, che debba essere consentito al giudice di applicare la custodia cautelare in carcere solo in via residuale e nei casi più gravi, allorquando cioè le altre misure coercitive o interdittive, applicate anche cumulativamente, non siano adeguate. Peraltro, potrebbe essere introdotto un ampliamento della durata delle misure interdittive, che sarebbe misura di potenziamento dell’obiettivo cautelare senza la necessità di ricorso al carcere.

4. Potenziamento delle misure alternative alla detenzione ed estensione della probation nella fase di cognizione (la c.d. probation giudiziale).

Occorre non solo ampliare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, prevedendo norme che ne favoriscano l’applicazione, ma anche pensare ad ulteriori forme di misura alternativa.
In ogni caso è necessario che le misure alternative costituiscano la forma ordinaria di pena, da applicare già in sede di pronuncia della sentenza di condanna, riservando il carcere solo ai reati di particolare gravità.
Infatti, è con il potenziamento dei controlli sull’esecuzione delle misure alternative che si garantisce la sicurezza dei cittadini e per far questo è necessario che tali attività siano effettuate dalle Direzioni degli istituti penitenziari e degli u.e.p.e. mediante personale la polizia penitenziaria, l’unico corpo di polizia del Ministero della Giustizia e che conosce la materia dell’esecuzione della pena.
I costi per il carcere in Italia sono tra i più alti d’Europa e ogni detenuto costa all’erario 115 euro al giorno, per un costo complessivo annuo di circa 2 milioni e 800 mila euro. Nel nostro Paese, infatti, l’82% dei condannati sconta la pena in carcere, mentre in paesi come la Gran Bretagna e la Francia, ad esempio, la percentuale è del 25% e il residuo 75% sconta pene alternative al carcere. Se in Italia il ricorso alle misure alternative fosse nella percentuale della Gran Bretagna e della Francia oggi avremmo 20 mila detenuti anziché circa 66 mila, con un risparmio di circa 2 milioni di euro. Si tratta, ovviamente, di un calcolo teorico, ma non per questo poco significativo, che ha per presupposto l’invarianza del costo unitario di ciascun detenuto che è, però, condizionato da altre variabili che non possono essere esaminate in questa sede.
Ma il dato più importante sotto il profilo sociale è che le persone che scontano la pena in carcere hanno una recidiva di circa il 68%, mentre coloro che hanno scontato la pena attraverso le misure alternative alla detenzione hanno una recidiva del 19%, che si abbatte all’1% per coloro che hanno seguito un intervento lavorativo.
In concreto per ampliare il ricorso alle misure alternative alla detenzione occorre:
a) Modificare l’art.4 bis O.P. per riportarlo all’originaria ratio di prevenzione per i delitti di mafia e terrorismo, giacché solo per questi è ragionevole una presunzione di particolare pericolosità del soggetto, laddove persista il collegamento con l’organizzazione mafiosa.
b) Rivedere la L. 05.12.2005 n.251 (c.d. legge ex Cirielli) che ha previsto inasprimenti di pena e un forte irrigidimento delle possibilità di ottenere l’ammissione alle misure alternative alla detenzione per i condannati recidivi “qualificati” di cui all’art.99, c. 4, c.p. oltre che il divieto della prevalenza delle circostanze aggravanti sulle attenuanti.
c) Intervenire sul T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (D.P.R. 09.10.1990 N.309), come modificato dalla L. 21.02.2006 n. 49.
Con la L. 21.02.2006 n. 49, di conversione del D.L. 30.12.2005 n. 272 (la c.d. legge Fini-Giovanardi) che ha rivisto la disciplina degli stupefacenti, inasprendo le sanzioni (relative alle condotte di produzione, traffico, detenzione illecita ed uso di sostanze stupefacenti), abbandonando i previgenti criteri-soglia per far scattare le misure detentive, legate alle quantità minime ed all’uso personale) e abolendo ogni distinzione tra cc.dd. droghe leggere (come la cannabis) e le cc.dd. droghe pesanti (come eroina o cocaina), le strutture penitenziarie hanno registrato un aumento importante di soggetti tossicodipendenti e di soggetti con condanne brevi e brevissime.
Difatti oggi più del 38% della popolazione detenuta è costituita da soggetti imputati o condannati per i reati previsti dalla legge n.49 del 2006.
Inoltre, la legge n.49, pur avendo aumentato a sei anni la pena da scontare eventualmente fuori dal carcere ha ridotto a due il limite sulle concessioni dell’affidamento terapeutico, con la conseguenza che l’affidamento terapeutico è precluso ad un consistente numero di soggetti.
Prima del 2006, invece, i 2/3 degli affidamenti terapeutici erano applicati dalla libertà, mentre dopo l’approvazione della legge n.49/2006 essi intervengono dopo un periodo di permanenza in carcere. Difatti, con la legge n.49/2006 è venuta meno la possibilità di accesso al meccanismo prima operante con la c.d. legge Simeone-Saraceni (L. 27.06.1998 n. 165, "Modifiche all'articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), grazie alla quale per presunte condanne sotto i tre anni era possibile la sospensione dell’ordine di esecuzione in carcere e l’avvio diretto alla misura dell’affidamento in prova, meccanismo questo che consentiva se non la deflazione diretta delle carceri quantomeno un mancato incremento delle stesse.
Il duplice effetto, dell’inasprimento del regime penale per i reati connessi al mercato della droga e dell’aggravamento o preclusione delle condizioni di accesso alle misure alternative per gli stessi reati, ha avuto e mantiene come conseguenza un enorme incremento di detenuti. Peraltro molto spesso si tratta di soggetti portatori di problematiche di salute legate alla tossicodipendenza, con conseguenti gravi ulteriori criticità per il sistema penitenziario.
Occorre, invece, pensare ad un carcere che non sia strumento improprio per risolvere il problema sociale della droga, che deve essere affrontato colpendo le organizzazioni criminali che gestiscono lo spaccio, intervenendo con misure che coinvolgano gli altri Paesi, potenziando gli interventi sociali, sanitari ed educativi, a partire dalla scuola.
d) Eliminare ogni altra norma che prevede automatici e generalizzati sbarramenti preclusivi all’accesso alle misure alternative.
e) Prevedere la sospensione del processo e la messa alla prova durante la fase di cognizione (la c.d. probativo giudiziale.
Come già avviene nel processo penale minorile e come già proposto dal Ministro della Giustizia nel recente disegno di legge n.5019 (Camera dei Deputati), non approvato per lo scioglimento anticipato delle Camere, è necessario prevedere anche per i maggiorenni la possibilità di ottenere la sospensione del processo e la messa alla prova durante la fase di cognizione (la c.d. probation giudiziale).
Riteniamo, comunque, che l’ambito di applicazione dell’ipotizzata misura della messa alla prova giudiziale dovrebbe essere ampliato per avere effetti adeguati sul sistema penitenziario, poiché il predetto D.D.L. riguarderebbe in concreto un numero molto esiguo di persone detenute (stiamato da alcuni in circa 250 persone, ovvero lo 0,33 % della popolazione detenuta attuale), in considerazione che nei quattro anni previsti come pena massima edittale non è compresa l’elevata percentuale (oltre il 38%) di coloro che sono tossicodipendenti detenuti nelle nostre carceri in relazione alla violazione dell’attuale legge Bossi-Fini sugli stupefacenti.

5. Riforma del processo penale.

Occorre una riforma del processo penale, perché la percentuale dei detenuti ancora imputati e, quindi, teoricamente ancora innocenti, è, come già detto, pari a 25.696 (39,11% del totale).
Un’amministrazione della giustizia efficiente è il perno sul quale si regge uno Stato libero e democratico, che ha il dovere di garantire ad ogni cittadino il riconoscimento dei suoi diritti attraverso un processo equo e che si svolga in tempi ragionevoli, ancor più nel processo penale, laddove la ragionevole durata del processo è un rimedio contro il rischio che una persona resti troppo a lungo sotto la spada di Damocle di un'accusa, con tutto quello che ciò comporta sotto il profilo morale e materiale, soprattutto, ma non solo, quando l'accusato sia detenuto.
Occorre, quindi, pensare ad un carcere che consegue ad una sentenza definitiva di condanna pronunciata a seguito di una durata ragionevole del processo.
Peraltro l’Italia vanta il più alto numero di condanne inflitte dalla Corte di Strasburgo per violazioni dell'articolo 6§1 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, divenute più frequenti dopo l'introduzione nell’art.111 della Costituzione il principio della “ragionevole durata” del processo.

6. Revisione della legislazione sulla immigrazione irregolare.

E’ oramai accertato che il “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (aggiornato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, cd. Riforma Fornero) e, in particolare, l’introduzione del reato di clandestinità a cura della legge 15.07.2009, n.94, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” (c.d. “pacchetto sicurezza”), hanno un’incidenza oggettiva sul fenomeno del sovraffollamento delle carceri.
Da ricordare che il c.d. “pacchetto sicurezza” (intervenuto dopo la legge 06.03.1998 n. 40, la c.d. legge Turco-Napolitano, istitutiva dei centri di permanenza temporanea, e la L. 30.07.2002 n.189, la c.d. legge Bossi-Fini, sui permessi di soggiorno, i respingimenti al Paese di origine in acque extraterritoriali, l'identificazione degli aventi diritto all'asilo politico, a prestazioni mediche e assistenza da parte delle forze di polizia in mare) ha trovato e trova pesanti critiche della Commissione europea e del Comitato contro le discriminazioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che lo ritengono ad alto contenuto xenofobo, in particolare per la creazione del reato di immigrazione clandestina per colui che, pur non avendo commesso alcun altro reato, è entrato e rimane nel territorio dello stato illegalmente.
In particolare, la previsione della pena della reclusione da sei mesi a cinque anni l’inottemperanza all’obbligo di espulsione emanato dal questore (allorquando lo straniero permanga ingiustificatamente e illegalmente sul territorio dello Stato) e l’obbligatorietà dell’arresto che è prevista in questo caso, determinano diretti e importanti effetti sugli ingressi in carcere e, quindi, sul numero delle persone detenute.
Tenuto conto dell’entità del fenomeno, dello scarso se non scarsissimo effetto deterrente della norma e degli elevatissimi costi economici e sociali della detenzione, si rende necessario rivalutare l’impianto normativo afferente il contenimento del fenomeno dell’immigrazione.
Difatti, la esigua accessibilità alle misure alternative da parte degli stranieri, la inoperatività di fatto del meccanismo dell’espulsione come sanzione alternativa, dovuta ai problemi di identificazione della nazionalità dei soggetti da espellere e all’assenza stessa di fondi per finanziare i rimpatri coattivi, l’impianto normativo generale produce un alto livello di carcerazione che ha portato la popolazione detenuta a raddoppiarsi rispetto agli inizi degli anni ’90.
Questo fenomeno al quale oggi si assiste è quello, già noto da decenni negli Stati Uniti, della c.d. “incapacitazione selettiva” poiché la carcerazione colpisce precise fasce di popolazione, più esposte alla devianza, cosicché il carcere diviene l’ultimo approdo, contenitivo e provvisorio, di stranieri non assistiti da un pianificato progetto migratorio, essendo anzi messo in preventivo il rischio di una più o meno lunga detenzione all’atto della partenza.
Occorre, invece, che il carcere non sia strumento improprio per risolvere il problema dell’immigrazione, per la quale occorre pensare, semmai, a interventi adeguati e continui sul piano internazionale e su quello dell’inclusione sociale.

7. Modifica del lavoro penitenziario

Occorre investire sul recupero del detenuto attraverso il lavoro e, in tal senso, è necessario coinvolgere le imprese incentivandole a investire nel lavoro penitenziario, dentro e fuori dal carcere.
E’ per questa ragione che il mancato rifinanziamento della Legge 22.06.2000 n.193, contenente "Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti" (la c.d. “legge Smuraglia”), è molto deleterio per il sistema e rischia di avere costi sociali importanti, non solo perché riduce le possibilità di reinserimento sociale e di applicazione delle misure alternative ma anche perché aumenta il rischio di recidiva dopo la detenzione.
E’ necessario, inoltre, un modello nuovo di esecuzione della pena nel quale il lavoro penitenziario sia effettivamente il principale strumento di rieducazione del detenuto, ma per far questo occorre che il lavoro penitenziario sia sganciato dal modello teorico che lo ha voluto assimilare al lavoro nella “società libera”, quella fuori dal carcere, anche per la retribuzione, perché questa assimilazione ha determinato il suo inevitabile fallimento a causa della sua non competitività.
Occorre, inoltre, che la materia della sicurezza sul lavoro, ex D.Lgs. 09.04.2008 n.81 per il lavoro in carcere dei detenuti sia particolarmente rivalutata in ragione della specificità del contesto penitenziario e per la natura rieducativa del lavoro, onde evitare che eccessive prescrizioni che hanno un senso in un contesto libero determinino riduzioni del ricorso al lavoro penitenziario da parte della stessa amministrazione penitenziaria in ragione degli elevati costi anche per effetto del turnover dei detenuti che spesso caratterizza il lavoro penitenziario.

8. Adeguamento delle dotazioni organiche, formazione e valorizzazione del personale.

Quello penitenziario è un sistema complesso, essendo ad esso demandati tanto il compito di assicurare la sicurezza dei cittadini, quanto quello di dare attuazione al principio costituzionale di rieducazione dei condannati. In tal senso l’esecuzione delle pene detentive e delle altre misure privative della libertà personale non è altra cosa rispetto al “sistema sicurezza” né, tantomeno, rispetto al “sistema giustizia”.
Per quanto attiene l’aspetto “sicurezza” è di tutta evidenza che quella penitenziaria è sicurezza dentro e fuori dal carcere e che la rieducazione del condannato determina sicurezza per i cittadini, poiché la restituzione alla società di uomini migliori e capaci di reinserirsi dopo la detenzione comporta una effettiva riduzione della recidiva. Per quanto riguarda l’aspetto “giustizia”, invece, non può esservi dubbio alcuno che il carcere e gli u.e.p.e. fanno parte del “sistema giustizia” nel suo complesso, perché la giustizia non si ferma nelle aule dei tribunali e delle corti, ma si attua all’interno dei penitenziari e attraverso gli uffici di esecuzione penale esterna.
Purtroppo, invece, benché l’esecuzione penale esterna dovrebbe costituire il volano per ridare respiro alle carceri, oramai oltremodo sature, in un’ottica per la quale la pena detentiva dovrebbe essere l’extrema ratio, gli u.e.p.e. sono oggi del tutto svuotati di ogni risorsa (a partire dai dirigenti penitenziari del ruolo di esecuzione penale esterna e sino agli assistenti sociali. non meno del personale amministrativo).
Per garantire il corretto funzionamento di questo complesso sistema, che si occupa di persone umane, e per far fronte all’emergenza penitenziaria occorrono adeguate risorse di personale, e non solo di polizia penitenziaria, che nel tempo è andato sempre più riducendosi, tanto per effetto delle progressive riduzioni degli organici disposte da diverse disposizioni di legge quanto a causa degli intervenuti pensionamenti, tanto più con l’apertura di nuovi istituti penitenziari e di nuovi padiglioni detentivi.
Con riferimento ai dirigenti penitenziari a breve, per la sola naturale riduzione che sta discendendo dai collocamenti a riposo senza ricambio alcuno (l’ultima immissione nel ruolo risale oramai a quindici anni or sono, cioè al 1997), il già risibile numero di dirigenti penitenziari (all’1.06.2012 n. 392,
compresi i dirigenti generali) determinerà l’impossibilità gestionale delle carceri e degli u.e.p.e., se non saranno trovati rimedi urgenti per procedere a nuovi concorsi.
Sicuramente la riduzione progressiva dei dirigenti penitenziari finirà con il privare ulteriormente molte carceri del suo direttore in sede, situazione questa gravissima perché il direttore è il primo garante dei principi di legalità nell’esecuzione penale, essendo armonizzatore delle esigenze di sicurezza e di quelle trattamentali. Questa situazione sposterà l’asse gestionale del carcere, per forza di cose, su altre figure e se dovessero venire meno le già ridottissime figure professionali del trattamento, (anzitutto funzionari giuridico-pedagogici e funzionari della professionalità di servizio sociale) questo asse non potrà che ruotare intorno al personale di polizia penitenziaria cosicché la dimensione del penitenziario diverrà per forza di cose prevalentemente sicuritaria.
Il personale di polizia penitenziaria resta comunque anch’esso gravemente insufficiente, soprattutto in vista dell’apertura di nuove carceri e di ulteriori padiglioni detentivi, atteso che la relativa pianta organica, a suo tempo determinata dal D.M. 08.02.2001 con riferimento a una popolazione detenuta di 50.000 unità, oggi registra una carenza di oltre 7.000 agenti a fronte di circa 66.000 detenuti presenti nelle carceri, rispetto ad una capienza regolamentale di circa 45.700 posti letto.
Riteniamo, inoltre, che debba essere dato un ruolo essenziale alla formazione di tutto il personale, purtroppo oggi troppo sacrificata a causa delle scarse risorse finanziarie e che, invece, dovrebbe essere potenziata affinché gli sforzi rivolti ad affrontare l’emergenza penitenziaria siano omogenei e convergenti, soprattutto per l’attuazione di un nuovo modello di esecuzione della pena detentiva per il quale la sicurezza sia effettivamente la condizione per garantire il trattamento penitenziario, ma anche per affermare la centralità del trattamento rieducativo all’interno del sistema senza rinunciare alla sicurezza necessaria a realizzarlo.
E’ inoltre essenziale, per favorire il funzionamento della complessa macchina penitenziaria, un’attenta valorizzazione delle risorse umane oltre che attraverso la formazione anche mediante il riconoscimento della delicatezza e dell’importanza delle funzioni esercitate dal personale penitenziario, soprattutto in un momento come questo caratterizzato dall’emergenza. In tal senso non può farsi a meno di rilevare che nonostante siano trascorsi quasi 8 anni dalla legge 27 luglio 2005 n.154, istitutiva della carriera dirigenziale penitenziaria di diritto pubblico, i dirigenti penitenziari, di istituto penitenziario e di u.e.p.e., si trovano non solo senza il contratto di categoria previsto dalla legge ma anche senza che sia stata data attuazione alla ricostruzione di carriera prevista dall’art.28 del D.Lgs. 15 febbraio 2006 n.63, che ha definito il loro ordinamento, e per questo con un trattamento economico ampiamente inferiore a quello degli altri dirigenti dello Stato.

Il Segretario Nazionale
Rosario Tortorella

PRESIDENTE
Dott.ssa Cinzia CALANDRINO

SEGRETARIO NAZIONALE VICARIO
Dott. Francesco D’ANSELMO

SEGRETARIO NAZIONALE AGGIUNTO
Dott. Nicola PETRUZZELLI


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1 Per effetto della legge “svuota carceri” o “salva carceri” sono usciti sino ad oggi complessivamente dai penitenziari 9mila detenuti (9.005), di cui 2.492 stranieri.
2 analisi realizzata da "Le Due Città", periodico del D.A.P.


 

 

 

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