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Prot. n.190/T/14.6 del 26 gennaio 2014 e Prot. n.191/T/14.7 del 26 gennaio 2014 | 26/01/2014 |
COMUNICATO
Il SI.DI.PE. scrive alle Commissioni parlamentari e al Ministro della Giustizia: le disfunzioni del
sistema giustizia e l’emergenza penitenziaria non possono ricadere sui Direttori penitenziari.
Art.35 bis O.P. introdotto dal D.L.23 dicembre 2013,n.146 (cd. Decreto svuota carceri).
- Giudizio di ottemperanza e risarcimento danni per inosservanza dell’Amministrazione
Penitenziaria delle decisioni del Magistrato di Sorveglianza su reclamo - |
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Il D.L. 146/2013 (cd. Decreto Svuota carceri), ha ampliato la competenza del Magistrato di sorveglianza prevedendo il potere di decidere circa “l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dall’ordinamento penitenziario dalla quale derivi al detenuto un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti". Accanto a tale ampliamento di competenza, ha previsto espressamente non solo la possibilità del magistrato di ordinare l'ottemperanza, ma anche quella di dichiarare nulli gli eventuali atti dell’amministrazione e di determinare, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'amministrazione stessa per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento, entro il limite massimo di 100 euro per ogni giorno (tale statuizione costituisce titolo esecutivo), nonché di nominare, ove occorra, un commissario ad acta. Il Si.Di.Pe. – che raccoglie la maggioranza dei dirigenti penitenziari, di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna - ha inviato ai Presidenti delle Commissioni Parlamentari competenti, al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ed al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, una lettera (che si allega) per segnalare come tali norme rischiano di produrre effetti gravi, sebbene non voluti, tanto sul funzionamento del sistema penitenziario quanto sulle già misere finanze dello Stato, con il rischio che, in vero è più che un rischio, che tali effetti vengano a gravare sulla parte più debole ed esposta del sistema, cioè sulla dirigenza penitenziaria e, in particolare, sui direttori degli istituti penitenziari. Il Si.Di.Pe., inoltre, ha espresso dubbi in ordine alla costituzionalità di tali norme che non solo costituiscono il Magistrato di sorveglianza quale giudice amministrativo speciale, ponendo un problema di compatibilità con il riparto di giurisdizione previsto dalla Costituzione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (ex artt. 102 e 103 della Costituzione e VI Disp.Tr.), ma addirittura gli consentono di entrare profondamente nel merito delle decisioni amministrative, di annullare (e non solo disapplicare, secondo i principi generali di diritto sottesi al principio di separazione dei poteri dello Stato) gli atti amministrativi, di ordinare all’Amministrazione penitenziaria un facere e addirittura di sostituirsi ad essa attraverso un commissario ad acta, in materie sovente permeate da profonde e inscindibili ragioni di sicurezza in materie sovente permeate da profonde e inscindibili ragioni di sicurezza e, pertanto, ad alto contenuto discrezionale. Tale nuova veste del magistrato di sorveglianza, in vero, condiziona fortemente l’azione dell’Amministrazione penitenziaria, quindi anzitutto delle Direzioni degli istituti penitenziari, ponendola in una posizione di maggiore esposizione rispetto alle altre amministrazioni dello Stato (a fronte della maggiore complessità e delicatezza del contesto penitenziario, per gli interessi pubblici in gioco, anche sotto il profilo della sicurezza penitenziaria, e per le oggettive condizioni di difficoltà in cui versano le strutture penitenziarie a causa della nota e generalizzata carenza di risorse finanziarie, economiche, umane e strumentali), privandola nel contempo di un giudice collegiale e di un secondo grado di merito e introducendo una procedura semplificata che riduce il suo diritto di difesa, con assegnazione di termini strettissimi. Il Si.Di.Pe. ha chiesto che le norme di cui si tratta siano espunte o comunque adeguatamente riviste per evitare che sia fatto carico ai Dirigenti Penitenziari, anello debole del sistema giustizia, di rispondere, di fatto, dei problemi che dipendono da scelte errate di politica penale del passato e che hanno determinato il congestionamento del sistema penitenziario. In verità l’attuale situazione penitenziaria è gravissima ed è dovuta a fattori esterni all’Amministrazione penitenziaria, quindi è estranea alle stesse Direzioni degli istituti penitenziari, che sono chiamate a gestire un’emergenza che è frutto di politiche penali “carcerogene” e “carcerocentriche”, ispirate cioè ad un ricorso indiscriminato al carcere come pena e come misura cautelare uniche. Al Signor Presidente della 2ª Commissione Giustizia del Senato, On.le Senatore Nitto Francesco Palma ROMA Al Signor Presidente della 2ª Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, On.le Deputato Donatella Ferranti ROMA Al Signor Presidente della 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) del Senato, On.le Senatore Anna Finocchiaro ROMA Al Signor Presidente della 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) della Camera, On.le Deputato Francesco Paolo SISTO ROMA Al Signor Presidente della 5ª Commissione permanente (Bilancio) del Senato On.le Senatore Antonio AZZOLLINI ROMA Al Signor Presidente della 5ª Commissione permanente (Bilancio, tesoro e programmazione) della Camera, On.le Deputato Francesco BOCCIA ROMA e per conoscenza: On.le Annamaria Cancellieri ROMA Al Signor Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Presidente Giovanni Tamburino ROMA si deve premettere che il Si.Di.Pe. – che raccoglie la maggioranza dei dirigenti penitenziari, di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna - ha salutato con sostanziale favore l'annuncio del secondo decreto legge del Governo per fronteggiare l'emergenza penitenziaria, il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146 “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”, e non poteva che essere così, atteso che l'obbiettivo era, evidentemente, la prosecuzione logica di quegli interventi già avviati con il precedente D.L. 1 luglio 2013, n. 78 “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena”, per ridurre gli ingressi non necessari in carcere e per ampliare le possibilità di ammissione alle misure alternative, anche prima dell'ingresso in carcere. D'altra parte il Si.Di.Pe. da sempre sostiene che occorrono provvedimenti che riducano il sovraffollamento e che siano in grado di mantenere la popolazione detenuta entro limiti compatibili con la capienza delle strutture e con i principi di rispetto della dignità umana che la nostra Costituzione e l'ordinamento penitenziario, prima ancora che la normativa europea, riconoscono. E, per la verità, il Si.Di.Pe. denuncia da anni che l’emergenza penitenziaria discende da problemi strutturali del sistema giustizia che traggono origine dall’errata cultura secondo la quale il carcere è l’unica pena utile per un fatto costituente reato, da una ipertrofia del diritto penale, dal depotenziamento delle misure alternative (anche per l’eccessivo valore ostativo della recidiva), da un uso abnorme della custodia cautelare. In tal senso il Si.Di.Pe. ha sempre espresso la posizione dei direttori, di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna, a favore di un sistema penitenziario che sia coerente con i principi internazionali e costituzionali di rispetto della dignità della persona detenuta e della finalità rieducativa della pena, rispetto alla grave situazione di disagio che si registra nelle carceri italiane. Questo perché i dirigenti penitenziari sono i primi garanti dei principi di legalità nell’esecuzione penale e ritengono il rispetto dei diritti della persona una condizione essenziale senza la quale non può esistere vera giustizia ma solo una forma di arcaica vendetta, che non è compatibile con uno Stato che si vuole definire di diritto. Peraltro i dirigenti penitenziari vivono e patiscono in prima persona le conseguenze della grave emergenza delle carceri, che incide pesantemente anche sulla loro attività lavorativa poiché tale emergenza determina per essi maggiori rischi professionali, esponendoli a più elevate responsabilità, amministrative, civili e finanche penali. Orbene, il Si.Di.Pe. se per un verso ritiene che il nuovo decreto cd. “svuota carceri”, ovverosia il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, vada complessivamente nella direzione giusta, atteso che altre e più complessive misure di intervento sono di competenza del Parlamento che dovrà valutarle in un’ottica di armonizzazione delle diverse esigenze in gioco, per altro verso ritiene che debba prestarsi particolare attenzione ad alcune norme da esso introdotte e che rischiano di produrre effetti gravi, sebbene non voluti, tanto sul funzionamento del sistema penitenziario quanto sulle già misere finanze dello Stato, con il rischio che, in vero è più che un rischio, che tali effetti vengano a gravare sulla parte più debole ed esposta del sistema, cioè sulla dirigenza penitenziaria e, in particolare, sui direttori degli istituti penitenziari. Si premette che l’art.31, comma 1, lett. i) del D.L. 146/2013, infatti, sostituendo il comma 6 dell’art.69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario2 ) ha ampliato la competenza del Magistrato di sorveglianza prevedendo il potere di decidere circa “l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti". Accanto a tale ampliamento di competenza, caratterizzato dal generico riferimento della norma a qualunque disposizione prevista dalla legge sull’ordinamento penitenziario e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio di qualunque diritto, l’art.3, comma 1, lett. b) del D.L. 146/2013, ha previsto il procedimento di “Reclamo giurisdizionale”, attraverso l’introduzione dell’art.35 bis alla legge sull’Ordinamento penitenziario che per i casi sopra indicati prevede espressamente non solo che “Nelle ipotesi di cui all'articolo 69, comma 6, lettera b), accertate la sussistenza e l'attualità del pregiudizio, ordina all'amministrazione di porre rimedio” ma, anche, al comma 5, la possibilità della persona detenuta o del suo difensore di chiedere, nel caso di mancata esecuzione del provvedimento, la sua ottemperanza al magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento. A norma del successivo comma 6, tale possibilità consente al magistrato di sorveglianza, ove accolga la richiesta, di: a) ordinare l'ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento; b) dichiarare nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del provvedimento rimasto ineseguito; c) determinare, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'amministrazione per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento, entro il limite massimo di 100 euro per ogni giorno (tale statuizione costituisce titolo esecutivo); d) nominare, ove occorra, un commissario ad acta. Si deve evidenziare in questa sede, pur volendosi evitare approfondite valutazioni, che tali norme pongono seri problemi di legittimità costituzionale. Difatti si tratta di norme che non solo fanno del magistrato di sorveglianza un giudice amministrativo speciale, ponendo un problema circa il riparto di giurisdizione previsto dalla Costituzione tra giudice ordinario e giudice amministrativo ex artt. 102 e 103 della Costituzione e VI Disp.Tr.) ma che, addirittura, gli consentono di entrare profondamente nel merito delle decisioni amministrative, con la possibilità di ordinare all’Amministrazione penitenziaria un facere e addirittura di sostituirsi ad essa attraverso un commissario ad acta, in materie sovente permeate da profonde e inscindibili ragioni di sicurezza e, pertanto, ad alto contenuto discrezionale. Si pensi anche all’esercizio del potere disciplinare nei confronti della persona detenuta per il quale il comma 6 dell’art.35 bis O.P. attribuisce espressamente al magistrato di sorveglianza il potere di valutare anche il merito dei provvedimenti adottati dal Consiglio di disciplina (tra l’altro organo collegiale multiprofessionale ex art.40 O.P.3). Solo incidentalmente si vuole osservare come tale impostazione lasci seri dubbi di costituzionalità rispetto al principio di separazione dei poteri dello Stato in ordine allo sconfinamento del giudice ordinario, qual è il magistrato di sorveglianza, in attribuzioni proprie del potere esecutivo, di cui l’Amministrazione penitenziaria è promanazione. Espressione di tale principio costituzionale è la L. 20 marzo 1865, n. 2248 “Legge sul contenzioso amministrativo” (All. E) che stabilisce, agli artt. 4 e 5, i limiti interni della giurisdizione del giudice ordinario4 giudice ordinario può conoscere degli effetti dell’atto e, quindi, si limiterà a valutare, in via incidentale, la legittimità dell’atto stesso, ma non potrà né annullarlo, né revocarlo, ma solo disapplicarlo, cioè potrà tenerne conto solo ai fini della singola questione da decidere. Ne consegue che la valutazione sulla legittimità dell’atto non può avere effetti di giudicato ma esplicherà i suoi effetti solamente ed esclusivamente con riferimento al caso particolare dedotto in giudizio. L’attribuzione al giudice ordinario del solo potere di disapplicare l’atto amministrativo, previsto dall’art.4 dell’Allegato E alla legge 2248 del 1865, e l’esclusione della possibilità di quello di annullare o revocare l’atto stesso, deriva, quindi, dal principio della separazione dei poteri per evitare che egli possa entrare nella sfera propria di un altro potere dello Stato e cioè quello esecutivo. E, difatti, il divieto previsto all’art.4 citato si estende anche attività materiali, purché perseguano fini istituzionali, e a tutte le attività discrezionali della pubblica amministrazione. Da tutto quanto sopra esposto discende che il giudice non può ordinare alla P. A. un facere specifico o modificare un atto/comportamento espressione del potere pubblicistico. Certo è che il potere di conformazione e addirittura di annullamento dì atti dell’Amministrazione, piuttosto che di mera disapplicazione, secondo i principi generali, accompagnato dal potere di ordinare un facere e di sostituirsi all’Amministrazione con un commissario ad acta fa del Magistrato di sorveglianza non solo un giudice amministrativo speciale ma consegna ad esso una porzione di concreta gestione delle carceri con possibili effetti devastanti, posto che la funzione giurisdizionale segue logiche ed ha finalità molto diverse dalla funzione amministrativa e dall’amministrazione attiva, sia pur nel rispetto della legge. E poiché il numero dei detenuti è comunque di gran lunga superiore alla capienza complessiva degli istituti penitenziari (sono circa 15.000 i detenuti oltre la capienza regolamentare delle carceri italiane, atteso che alla data del 9 gennaio c.a. le persone ristrette negli istituti erano 62.326, rispetto ad una capienza regolamentale di circa 47.738 posti letto) occorre tenere conto, inoltre, della seria possibilità di una lievitazione dei costi per i servizi di traduzione che discenderebbero da provvedimenti del magistrato di sorveglianza rivolti a ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari di propria competenza e che potrebbero determinare un vero e proprio “turismo” penitenziario delle persone detenute verso altre sedi penitenziarie, nelle quali in breve ragionevolmente sorgerebbero analoghe situazioni di sovraffollamento dalle quali, quindi, potrebbero derivare analoghi provvedimenti prescrittivi di altro magistrato di sorveglianza competente. Tale nuova veste del magistrato di sorveglianza, in vero, pone non solo un problema di compatibilità con il riparto di giurisdizione previsto dalla Costituzione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (ex artt. 102 e 103 della Costituzione e VI Disp.Tr.) ma condiziona fortemente l’azione dell’Amministrazione penitenziaria, quindi anzitutto delle Direzioni degli istituti penitenziari, ponendola in una posizione di maggiore esposizione rispetto alle altre amministrazioni dello Stato (a fronte della maggiore complessità e delicatezza del contesto penitenziario, per gli interessi pubblici in gioco, anche sotto il profilo della sicurezza penitenziaria, e per le oggettive condizioni di difficoltà in cui versano le strutture penitenziarie a causa della nota e generalizzata carenza di risorse finanziarie, economiche, umane e strumentali), privandola nel contempo di un giudice collegiale e di un secondo grado di merito e introducendo una procedura semplificata che riduce il suo diritto di difesa, con assegnazione di termini strettissimi5. Tra l’altro l’art.3, comma 6, lett. b) del D.L. 146/2013, ha previsto espressamente che costituisce titolo esecutivo la statuizione del Magistrato di sorveglianza, con la quale “determina, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'amministrazione per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento, entro il limite massimo di 100 euro per ogni giorno”. A riguardo, in aggiunta a quanto già sopra esposto, non si può fare a meno di osservare che una tale previsione non solo aprirà un flusso incontrollabile di nuovo contenzioso, questa volta più ampio e interno allo Stato Italiano, ma determinerà conseguenti oneri economici enormi e non quantificabili alle casse dello Stato in ragione della gravissima situazione penitenziaria e dei limiti oggettivi all’agire amministrativo, a causa delle limitate risorse, dei delicati equilibri che la gestione penitenziaria comporta, dei tempi e delle procedure alle quali l’amministrazione stessa è obbligata. Inoltre, le SS.LL. comprenderanno il rischio grave di esposizione erariale, per non dire altro, dei Direttori degli istituti penitenziari a fronte di decisioni la cui attuazione, purtroppo, potrebbe essere anche oggettivamente impossibile, a fronte della situazione penitenziaria attuale, o anche straordinariamente onerosa, che i singoli Magistrati di sorveglianza, organi monocratici, potrebbero assumere nell’ambito della propria autonomia, interpretando il loro nuovo ruolo giurisdizionale secondo un’estensione ampia che ricopra la tutela di ogni diritto ben oltre i limiti oggettivi e indefettibili discendenti dall’interesse pubblico sotteso alla limitazione della libertà personale e ben oltre le stesse possibilità dell’Amministrazione. In verità l’attuale situazione penitenziaria è gravissima ed è dovuta a fattori esterni all’Amministrazione penitenziaria, quindi è estranea alle stesse Direzioni degli istituti penitenziari, che sono chiamate a gestire un’emergenza che è frutto di politiche penali, per così dire, “carcerogene” e “carcerocentriche”, ispirate cioè ad un ricorso indiscriminato al carcere come pena e come misura cautelare uniche. La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella nota sentenza Toreggiani, ha osservato che le centinaia di ricorsi simili a quello esaminato e pendenti presso di essa, sono la riprova dell’esistenza in Italia di un problema strutturale o sistemico di sovraffollamento delle carceri. Peraltro la gravità del problema è testimoniata dal fatto che, dopo la decretazione dello stato d’urgenza avvenuta nel 2010, il tasso di sovraffollamento dei penitenziari italiani è passato dal 151% al 148%, con un calo davvero risibile, e che circa il 40% della popolazione carceraria italiana è costituita da persone che sono ancora in attesa di giudizio. Per questo, una volta affermata l’esistenza di un problema strutturale o sistemico, la C.E.D.U. ha invitato l’Italia ad agire per ridurre il numero dei detenuti prevedendo, in particolare, l’applicazione di misure punitive non privative della libertà personale in alternativa a quelle che prevedono il carcere e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Per questa ragione quell’alto consesso giurisdizionale europeo, ha richiamato anche le Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (Rec(99)22 e Rec(2006)13), che invitano gli Stati a orientare la loro politica penale per ridurre il ricorso a pene detentive e ad estendere i casi in cui queste possono essere sostituite da misure alternative al carcere. È di tutta evidenza, quindi, che l’attuale situazione di difficoltà del sistema penitenziario è esogena, sta prima e fuori dal carcere e determina, di riflesso, una compressione "di sistema" dei diritti dei detenuti che non dipende né dagli operatori penitenziari né certo dal Direttore. Ne consegue che le decisioni del magistrato di sorveglianza in sede di reclamo dei detenuti se restavano e restano ineseguite non era e non è per volontà inattuativa delle Direzioni bensì perché una loro attuazione era ed è, sovente, impossibile perché dipende da fattori oggettivi ed insuperabili di carattere strutturale o esterno e che imporrebbero, invece, interventi di sistema anche e soprattutto fuori e prima del carcere e, spesso, di competenza di organi esterni all’Amministrazione ( si pensi alla sanità penitenziaria che è stata trasferita al SSN o al modo in cui la magistratura - al di là dei limiti normativi pure di recente introdotti - comunque opera in materia di custodia cautelare ed all’ancora insufficiente utilizzazione delle misure alternative alla detenzione). Tuttavia, sebbene occorrano ancora ulteriori interventi normativi di più ampio respiro sistemico, gli effetti delle iniziative del Governo lasciano ben sperare perché vanno nella direzione giusta. In tal senso sono effettivamente incoraggianti i primi risultati del D.L. 146/2013, perché al 9 gennaio 2014 i detenuti in carcere erano 62.326 (59.644 uomini e 2.682 donne), in progressivo decremento rispetto alla precedente rilevazione del 4 dicembre 2013, quando il numero era di 64.056 detenuti, come lo stesso Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ha detto alla Camera il 21 gennaio scorso6 parlando di quest’ultimo decreto cd. “svuota carceri”. E lascia anche ben sperare la circostanza che al Senato è ripreso l'esame del ddl 925 sulle depenalizzazioni, le pene alternative al carcere e la messa alla prova con la votazione degli emendamenti (tra l’altro è stato depenalizzato il reato di immigrazione clandestina). Tuttavia, è evidente, i rimedi di carattere normativo-strutturale, assolutamente necessari, hanno bisogno di tempi tecnici incompatibili con il termine fissato dalla sentenza "Torreggiani" che scadrà, come noto, il 28 maggio 2014. Nel frattempo occorre agire e la dirigenza penitenziaria sta dimostrando, come sempre, di essere pronta a fare la propria parte. Le azioni e gli interventi messi in campo dall’Amministrazione, sulla base delle indicazioni della Commissione ministeriale di studio in tema di interventi in materia penitenziaria, a suo tempo istituita dal Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri presso l’Ufficio di Gabinetto dello stesso Ministro e presieduta dal Prof. Mauro Palma, hanno visto e vedono costantemente e direttamente coinvolti i Dirigenti penitenziari, dai Provveditori regionali dell’Amministrazione Penitenziaria ai Direttori degli Istituti Penitenziari e degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna, e l’impegno che essi stanno profondendo è tanto essenziale quanto intenso e partecipato, nonostante essi continuino ad essere il fanalino di coda di tutta la dirigenza pubblica, con il trattamento economico più basso, senza le previste retribuzioni di posizione e di risultato e nonostante la legge preveda per essa un trattamento economico onnicomprensivo non inferiore a quello della dirigenza statale contrattualizzata7. A ciò si aggiunga che allo stato non ha trovato risoluzione la questione della ricostruzione giuridica ed economica della carriera prevista dall’art.28 del D.Lgs. n.63/20068. Il Ministro della Giustizia ha certamente avuto modo di verificare in prima persona l’impegno e la partecipazione dei Dirigenti penitenziari a tale positiva rivoluzione del sistema penitenziario. Essi, infatti, sono consapevoli di dover fare il possibile per evitare le conseguenze del mancato rispetto del termine fissato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tuttavia condizione imprescindibile per raggiungere lo scopo è che vi siano le risorse necessarie, umane e finanziarie, e, ci si consenta di dire, che siano realizzati quegli interventi normativi di più ampio carattere sistemico che consentano una riforma complessiva del sistema giustizia, dal codice penale al codice di procedura penale, perché il processo penale abbia una durata ragionevole9 , il carcere divenga l’extrema ratio e, quindi, ad esso si ricorra solo per i delitti più gravi e per i casi in cui le esigenze cautelari effettivamente lo rendano indispensabile. Stando così le cose, prevedere, come è stato fatto con il D.L. 146/2013 in argomento, un giudizio di ottemperanza dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza su reclamo e, addirittura, un risarcimento danni a carico dell'Amministrazione per ogni giorno di ritardo dell'esecuzione, non solo è fuorviante e non risolve affatto il problema, spostando sul carcere e sugli operatori penitenziari, anzitutto sul Direttore, responsabilità antiche che stanno altrove e che discendono da scelte o inerzie di tipo politico effettuate sistematicamente negli anni passati, ma genera, tra l'altro, aspettative che amplificheranno il malessere esistente, faranno aumentare il ricorso al reclamo e determineranno, a fronte delle oggettive gravi difficoltà dell’Amministrazione, oneri ulteriori a carico dello Stato, oneri che, non si vorrebbe, fossero cinicamente "scaricati" sui direttori delle carceri che, in vero, subiscono la situazione attuale. Onorevoli Presidenti,il Si.Di.Pe. desidera fare appello alla Loro sensibilità e, per l’attenzione che hanno sempre mostrato per la realtà penitenziaria, chiede alle SS.LL. che in sede di esame del D.L. 146/2013 le norme di cui si tratta siano espunte o comunque adeguatamente riviste per evitare che con la loro conversione in legge producano i gravi effetti rappresentati, facendo ingiustamente ricadere sui Dirigenti Penitenziari, anello debole del sistema giustizia, la responsabilità di problemi che dipendono da scelte errate di politica penale del passato, scelte che hanno determinato il congestionamento del sistema penitenziario. Si chiede, altresì, di voler valutare l’opportunità di un’audizione di questa organizzazione sindacale, al fine di consentirle di offrire il proprio più ampio contributo ai lavori. Al Signor Ministro della Giustizia,al quale la presente è pure diretta, si chiede un proprio autorevole intervento correttivo, certi che i rischi e gli effetti sopra paventati non sono da Egli sicuramente voluti. Cordialmente, Il Segretario Nazionale Rosario Tortorella PRESIDENTE Dott.ssa Cinzia CALANDRINO SEGRETARIO NAZIONALE VICARIO Dott. Francesco D’ANSELMO SEGRETARIO NAZIONALE AGGIUNTO Dott. Nicola PETRUZZELLI _________________________________________ 1Comma 1, lett. b) dell’art. 3 -Modifiche all'ordinamento penitenziario- del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146 “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”: <<1. Alla legge 26 luglio 1975, n. 354 sono apportate le seguenti modificazioni: (…) b) dopo l'articolo 35 è aggiunto il seguente: "35-bis (Reclamo giurisdizionale). - 1. Il procedimento relativo al reclamo di cui all'articolo 69, comma 6, si svolge ai sensi degli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale. Salvi i casi di manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell'articolo 666, comma 2, del codice di procedura penale, il magistrato di sorveglianza fissa la data dell'udienza e ne fa dare avviso anche all'amministrazione interessata, che ha diritto di comparire ovvero di trasmettere osservazioni e richieste. 2. Il reclamo di cui all'articolo 69, comma 6, lettera a) è proposto nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento. 3. In caso di accoglimento, il magistrato di sorveglianza, nelle ipotesi di cui all'articolo 69, comma 6, lettera a), dispone l'annullamento del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare. Nelle ipotesi di cui all'articolo 69, comma 6, lettera b), accertate la sussistenza e l'attualità del pregiudizio, ordina all'amministrazione di porre rimedio. 4. Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza è ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge, nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito. 5. In caso di mancata esecuzione del provvedimento non più soggetto ad impugnazione, l'interessato o il suo difensore munito di procura speciale possono richiedere l'ottemperanza al magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale. 6. Il magistrato di sorveglianza, se accoglie la richiesta: a) ordina l'ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento, tenuto conto del programma attuativo predisposto dall'amministrazione al fine di dare esecuzione al provvedimento, sempre che detto programma sia compatibile con il soddisfacimento del diritto; b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del provvedimento rimasto ineseguito; c) se non sussistono ragioni ostative, determina, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'amministrazione per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento, entro il limite massimo di 100 euro per ogni giorno. La statuizione costituisce titolo esecutivo; d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta. 7. Il magistrato di sorveglianza conosce di tutte le questioni relative all'esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario. 8. Avverso il provvedimento emesso in sede di ottemperanza è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge.>> 2L. 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”: 3Art. 40 - Autorità competente a deliberare le sanzioni- della L. 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”: < 4- Art. 4 L. 20 marzo 1865, n. 2248 “Legge sul contenzioso amministrativo” (All. E): << Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio. L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso>> . - Art. 5 L. 20 marzo 1865, n. 2248 “Legge sul contenzioso amministrativo” (All. E): << In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi >>. 5Il comma 4 dell’art.35 bis “Reclamo giurisdizionale” O.P. (introdotto dall’art.3, comma 1, lett. b) del D.L. 146/2013, stabilisce che: << Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza è ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge, nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito>>. 621 gennaio 2014 alla Camera dei Deputati, nell'Aula di Montecitorio, le annuali Comunicazioni del guardasigilli sull'amministrazione della Giustizia, ai sensi dell'articolo 86 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, come modificato dall'articolo 2, comma 29, della legge 25 luglio 2005, n. 150. Nel suo intervento il ministro ha fatto il punto sullo stato della Giustizia in Italia nell'anno appena trascorso, sulle riforme varate e i provvedimenti in cantiere per migliorarne l'efficienza. 7Art.1, comma 1, lett. D) della legge n.154/2005: “un trattamento economico onnicomprensivo, non inferiore a quello della dirigenza statale contrattualizzata, articolato in una componente stipendiale di base, in una componente correlata alle posizioni funzionali ricoperte e agli incarichi di responsabilità esercitati, in una componente rapportata ai risultati conseguiti rispetto agli obiettivi fissati ed alle risorse assegnate” 8Cfr. nota Si.Di.Pe. diretta al Ministro della Giustizia e p.c. alla S.V. prot. n.138/T/2013.59 del 14 agosto 2013 < 9 Difatti l’Italia vanta il più alto numero di condanne inflitte dalla Corte di Strasburgo per violazioni dell'articolo 6 §1 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, divenute più frequenti dopo l'introduzione nell’art.111 della Costituzione del principio della “ragionevole durata” del processo. |
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