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“NON SI PUO’ MORIRE COSI’…” | 10/04/2008 |
(suicidi tra i poliziotti penitenziari: la preoccupazione dei direttori penitenziari) |
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Il malessere che si respira all’interno delle carceri italiane, e che non può soltanto riferirsi alla popolazione detenuta ma che riguarda tutta la comunità penitenziaria, ha conteggiato nei giorni scorsi altre due vittime.
Nel giro di poche ore, due poliziotti penitenziari si sono suicidati, allungando la lunga catena di lutti che sta segnando, negli ultimi anni, il Corpo della Polizia Penitenziaria, ma forse meglio sarebbe da dire, “l’anima” della stessa e di tutti gli operatori.
Nell’unirci, davvero con spirito di comunanza e sensi di solidarietà, al dolore delle famiglie di questi nostri compagni di lavoro, avvertiamo l’esigenza, di fronte all’ennesima sciagura, di dire la nostra, interrompendo un silenzio finora impostoci per evitare di alimentare polemiche, nonché sperando di confidare nella sensibilità dei fatti, e non delle parole, di quanti hanno le massime responsabilità di governo di questa complessa istituzione che gli studiosi definiscono “totale”…
La nostra categoria, che negli anni scorsi – talvolta – non è stata esente da analoghe disgrazie, nell’unirsi a quanti già da tempo hanno lanciato un forte grido d’allarme, non può fare a meno di rilevare il modo parziale con il quale si intende affrontare un tema, che non deve fermarsi solo agli appartenenti al Corpo, ma occuparsi della generalità degli operatori penitenziari. Per questo proporremmo che in ogni istituto penitenziario si apra un tavolo di discussione, interprofessionale tra quanti, realmente e quotidianamente, si confrontano con le dimensioni del dolore, della deprivazione, della disperazione.
E’ inutile fingere di non accorgersi che il fenomeno non solo può accentuarsi, ma rischia anche di accelerare la criticità di un sistema che continua ad essere governato con approssimazione, non raramente con scarso rispetto dei lavoratori penitenziari che operano soprattutto in periferia. Su questi – spesso – si scaricano tutte le “incompetenze” e la superficialità di quanti, sconfitti pure nella fatica di tentare di capire il mondo delle carceri, non si mostrano in grado di calarsi nella realtà di un quotidiano di grate e non di gratificazioni; un quotidiano che continua ad elemosinare risorse finanziarie ed umane modeste, mentre, al contrario, pretende il massimo dei risultati di una progettualità sospesa e dagli acronimi fantasiosi (CORAM, RIPROVA, SECIPENSI, etc.).
“Vagonate” di disposizioni ed adempimenti burocratici, vengono ogni giorno scaricate verso gli Istituti ed i Servizi Penitenziari, costringendo direttori e comandanti a spendere le loro migliori risorse di tempo, e di entusiasmo, nell’assolvimento di attività di natura cartacea, piuttosto che nella cura anzitutto dei rapporti umani con i propri collaboratori, del Corpo di Polizia Penitenziaria e degli altri ruoli degli Operatori Penitenziari.
I contratti collettivi della polizia penitenziaria (formalmente celebrati da solenni DPR) ed i relativi accordi quadro, non riescono mai a tradursi in reali miglioramenti delle condizioni di lavoro, e questo perchè le risorse umane e finanziarie rimangono costantemente inadeguate. Ciò induce spesso i Lavoratori alla mortificante sensazione di essere stati raggirati e/o non tutelati. La sensazione poi si traduce in realtà allorquando percepiscono, sulla pelle, come la loro vita professionale, all’interno di istituti, risulti spesso peggiorata, con le carceri che tornano a riempirsi di persone detenute le quali parlano le mille lingue del mondo; nel contempo registrano in numerose realtà lo svuotamento degli istituti dei pochi agenti che precedentemente erano presenti, spesso “distaccati” in istituti o uffici che meno abbisognano di personale penitenziario e soprattutto senza chiare e ed accertabili ragioni, alimentando i timori di scarsa trasparenza. A distanza di anni dagli accordi solennemente assunti, ancora non si trovano le risorse per rendere dignitose (non lussuose, ma vivibili…) le caserme, che piuttosto d’essere dei luoghi dove i giovani poliziotti possano ritemprarsi, spendendo una parte del tempo libero a disposizione, con modeste ma necessarie comodità, sono il succedaneo del grigiore del carcere. Le stanze delle caserme sono spesso spoglie: i nuovi istituti sono di regola in aree periferiche delle città, talchè le opportunità di aggregazione sono ridotte, insomma l’amministrazione non risulta in grado di offrire alcunché oltre un luogo dove potersi abbandonare al sonno o ai propri cupi pensieri. Le richieste, che regolarmente vengono fatte dalle direzioni, per acquistare micro-frigoriferi e piccole televisioni per le stanze degli agenti, rimangono senza riscontro: gli ambienti neanche lontanamente assomigliano, nella generalità, ai più modesti bad and breakfast. “Il Guardiano del Tesoro” risponderà che l’agente non risulta essere obbligato a risiedere in Caserma, è quella una sua “libera scelta”: Ma con gli stipendi che vengono corrisposti, soprattutto per coloro che devono vivere nel Centro e nel Nord d’Italia, come potrebbero i poliziotti penitenziari permettersi di locare appartamenti sul libero mercato ? Se per la popolazione detenuta, fortunatamente e in alcune realtà, è non di rado possibile trovare dei mecenati ed enti pubblici e privati che mettono a disposizione della stessa delle utilità (apparecchi televisivi, libri, materiale per il bricolage, etc.); tanto, ovviamente, non può chiedersi per gli appartenenti al Corpo, sarebbe poco dignitoso ed incomprensibile ai più. Spesso i direttori si sentono chiedere, soprattutto dagli agenti più giovani e glabri: “Perché i detenuti hanno le tv nelle loro stanze e noi che siamo agenti non possiamo averle, perché ai detenuti si assicurano aree verdi, campi da gioco, allenatori, mediatori culturali, biblioteche fornite, etc. etc., mentre per noi è già tanto poter contare su un posto letto ?” La risposta formale ed istituzionale è, ovviamente, scontata: mentre i primi sono privati della libertà, loro invece al termine del proprio lavoro saranno “liberi”, potranno recarsi fuori, decidere sul proprio tempo. Ma questa replica non è soddisfacente, non può bastare… Qui non si tratta di “proteggere” gli operatori penitenziari, ma almeno sforzarsi di capirli. Il carcere infatti è - e continua ad essere - una istituzione totale, forte, pregnante, che non ti consente di “entrare” ed “uscire” a piacimento pur non essendo persona detenuta; le ore che trascorri all’interno di un istituto carcerario ti entrano dentro, si depositano nel più profondo della tua coscienza, ed ogni giorno questo sedime cresce, si ispessisce, diventa pesante… Le ore che si inseguono lentamente in una sezione detentiva, di notte, tra lamentazioni di persone tossicodipendenti, urla improvvise di persone con problemi psichiatrici che lacerano l’apparente silenzio, i singhiozzi di pianto di chi si professa vittima della mala giustizia, le secche martellate delle porte blindate e dei cancelli che velocemente si serrano dopo ogni apertura, danno vita alla foresta notturna penitenziaria e alimentano un senso di angoscia e di tristezza senza fine. Se poi si aggiunge la vasta letteratura scritta e parlata, spesso ingiusta ed ipercritica, compresa quella filmica e dei salotti “intellettuali” e socialmente impegnati, alla quale spesso si aggiunge una cronaca giornalistica che predilige i pochi esempi negativi ad una generalità di condotte invece serie, istituzionali, di veri servitori dello stato, e che è incline a descrivere in modo becero il lavoro dei poliziotti penitenziari appellandoli, in modo se non spregiativo quanto meno sbrigativo, come “secondini”, carcerieri, guardie di carcere, guardiani, etc., alla privazione di servizi minimi alla persona del poliziotto penitenziario si aggiunge il disconoscimento del valore sociale e professionale di un lavoro duro, pericoloso e malpagato, per quanto essenziale, fondamentale nel conseguimento della sicurezza dei cittadini tutti. Infine la sensazione crescente che solo alcuni siano ascoltati nei propri problemi, nonché risultino destinatari di provvedimenti favorevoli di trasferimento in sedi che corrispondano ai propri luoghi di origine, o prossimori a quelli, e la constatazione che la vita professionale dei “rimanenti”, e per anni, sarà scandita inesorabilmente con orari di lavoro che non consentono di curare interessi personali affettivi, culturali, sportivi, etc. etc., non può che aggravare i toni dell’umore e favorire la spinta verso atteggiamenti di auto-disistima quanti, più di altri, sono in difficoltà. Una difficoltà che si alimenta anche dal vivere, costantemente, situazioni di lavoro che richiedono costante attenzione, prudenza, ragionevolezza, presenza di spirito, coraggio e coraggio ancora… Uno di fronte a 50 o 100 o forse ancora più detenuti, a fronte e non contro: ma talune situazioni possono improvvisamente cambiare, capovolgersi, prendere una direzione diversa, eppure bisogna essere calmi, freddi mentre tutto rischia di infiammarsi, anche perché ormai è noto che anche la più legittima delle reazioni verrà, nell’immediato, ascritta a condotta violenta e prevaricatrice del poliziotto “cattivo” verso il soggetto più debole che, in quei contesti, è identificato con la persona ristretta. Solo dopo la disamina dei fatti da parte delle autorità competenti l’episodio, semmai, potrà essere diversamente rubricato, ma fino a quel momento il rischio che si dia una lettura sfavorevole verso il poliziotto penitenziario non è ipotesi fantasiosa… Insomma, con queste poche righe si sta cercando di descrivere un tratto della difficile quotidianità di un poliziotto penitenziario per provare a spiegare come i fatti di cronaca, recentemente verificatisi, non debbano essere considerati come “precipitati” dal Cielo. Purtroppo l’attuale Governo, invece di caratterizzare meglio, attraverso una propria identità di sistema la medicina penitenziaria, che nelle origini era rivolta sia alle persone detenute che al personale del Corpo, ha preferito conferire alle Regioni, ergo alle Aziende Sanitarie, l’assistenza sanitaria dei detenuti, mentre poche e confuse sono le disposizioni che riguardano l’assistenza “interna” verso i poliziotti penitenziari. Invece che puntare, decisamente, su un proprio personale medico e paramedico penitenziario, su propri psicologi ed operatori penitenziari, sulle risorse “interne” anche da implementare, si è preferito declassificare, svendendola, la medicina penitenziaria nella sua “specialità”, talchè lì dove, semmai rivedendo gli attuali rapporti convenzionali, integrandoli con la previsione che le stesse prestazioni professionali, che attenessero quantomeno alla sfera psicologica degli operatori penitenziari, potessero rivolgersi pure agli stessi, ora si avrà il problema doppio di vederle centellinate anzitutto nei riguardi dei detenuti. Ma come al solito vi sarà chi, acriticamente, affermerà che i direttori penitenziari sono indifferenti alle questioni precitate, che gli stessi non hanno interesse a comprendere e difendere i propri collaboratori e tra questi i poliziotti penitenziari; si invocheranno i “generali” della provvidenza, ma questa volta la partita è diversa, è drammatica, qui non si tratta di affrontare i classici temi di un contenzioso che, finora, si è sempre preferito far affiorare e consumare in periferia piuttosto che nei piani alti dell’organizzazione penitenziaria e presso i provveditorati (forse anche perché quest’ultimi, non di rado, invece di risolverli i problemi li caricano di ulteriori negatività…): questa volta non si perdono congedi ordinari o si fanno ore in più di lavoro, bensì si consumano in modo drammatico delle vite e si gettano nello sconforto famiglie e l’intera comunità penitenziaria. Sarebbe comunque già un risultato che non si volessero aggiungere altri danni, con attendismi inutili e che non affrontino la situazione. Per questo si dovrà mettere sull’agenda delle priorità la QUESTIONE PENITENZIARIA. |
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Il Segretario Nazionale | |
Dr. Enrico SBRIGLIA | |